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“Tutto il team che lavora con me sono amici miei”.
**Quanti siete?**
“Sei, sette persone che campano di questo”.
**E con le ragazze?**
“In questo momento non mi immagino proprio fidanzato“.
**Ferragni-Fedez, Kim&Kanye, e anche Jay-Z e Beyonce: ti immagini di essere in una coppia così?**
“Se tu ti innamori di una persona non penso che stai lì a contare quale sia la combinazione giusta tra il tuo conto e il suo conto, tra i tuoi follower e i suoi follower”.
**E tra il business e una persona di cui ti innamori, chi sceglieresti?**
“Potrei anche dirti che non lo so. Se ti innamori scegli la persona. Se non ti innamori sceglierei per sempre il business.
Fortunatamente sono bello tranquillo e per i fatti miei”.
E poi conclude, con una frase che sembra uno slogan: “Io sono innamorato del mio business, adesso”.
# Qui Brera, il Design District più importante del pianeta
È stata la zona degli artisti e degli intellettuali, del Bar Jamaica e poi dei radical chic. Ancora nel dopoguerra ospitava la *contrada dei tett*, la zona a luci rosse di Milano. Oggi, trendy ed elegante, ritagliata tra le mura antiche del Castello Sforzesco e le torri di vetro di Porta Nuova, Brera – quartiere che prende il nome dall’omonima via e che significa “campo incolto” – è il primo e più importante **Design District** del pianeta, con oltre 100 showroom, gallerie d’arte e spazi per eventi.
Affacciato su un cortile interno di un caseggiato storico di via Palermo, il **Brera Apartment** è uno spazio di circa cento metri quadri arredato da **Bulthaup**, **Davide Groppi**, **Saba**, **Agape**​ e altri nomi dell’olimpo del design. **Paolo Casati**, **creative director** del **Brera Design District**, in jeans e maglione con la zip, mi accompagna per un rapido giro delle sale, che corrono lungo il corridoio laterale dove una parete verde di plexiglass, montata su legno, distorce il riflesso con un effetto assolutamente unico (la realizzazione è di Studiopepe). Fuori sui terrazzi in fiore scende la pioggia che affligge questa primavera milanese; Casati prepara un tè e ci accomodiamo al lungo tavolo **Vitra** che taglia longitudinalmente il salone su cui si apre l’appartamento. Sul parquet, un tappeto **cc-tapis**. “Questa casa è un manifesto”, spiega Casati.
Il **[Brera Design District](http://www.breradesigndistrict.it/?lang=en)** oggi si presenta come un brand sfaccettato che ha almeno 4 identità progettuali differenti e coordinate: oltre all’appartamento, i Design Days, l’evento autunnale dedicato alla cultura del progetto, un servizio di supporto per eventi sul territorio – **Location** – e poi ovviamente la piattaforma a servizio del **Fuorisalone**, che resta l’evento principale durante l’anno, oltre a essere quello che magnetizza la maggior parte delle risorse – e ovviamente, restituisce le maggiori possibilità di business. Dietro tutto questo c’è **Studiolabo**, l’agenzia di comunicazione che Casati ha fondato insieme a **Cristian Confalonieri** e con cui porta anche avanti lo storico progetto di Fuorisalone.it.
**Come nasce il BDD.** Il Brera Design District esordisce nel 2010. “Non lo inventiamo noi”, ricorda Casati, “ma una persona che si chiama Marco Torrani, presidente di Via Solferino”. L’intuizione parte dai *duc*, i [distretti urbani del commercio](https://fareimpresa.comune.milano.it/joomla/index.php?option=com_content&view=article&id=415&Itemid=352) all’epoca appena istituiti dal Comune di Milano. “Noi gli abbiamo dato un bel vestito, non ci siamo inventati qualcosa che non ci fosse già”: Brera è un **campo incolto** per etimologia, ma certo non lo era già allora per il design; c’erano molti show-room, una settantina, più qualche spazio per eventi già conosciuto – come la **Pelota** di Via Palermo, a pochi metri da dove ci troviamo adesso. E poco altro. A distanza di nove edizioni, il Fuorisalone di Brera è quello che assomma più visitatori. E gli showroom, intanto, sono diventati cento. Un numero destinato a lievitare, spiega il direttore creativo: “Oggi se uno vuole aprire uno show-room di design lo fa qui, perché non soltanto i milanesi, ma il pubblico internazionale riconosce in Brera questa vocazione”. Questo distretto non è diventato un punto di riferimento per il design per caso, ma come risultato di un’operazione a tavolino. Sono serviti un lungo studio, svariate analisi e tanto, tantissimo lavoro. “Il nostro modello è stato copiare quello che vedevamo nel mondo”, ricorda Casati, “come il **Meatpacking District** o **Soho** a New York, operazioni costruite a tavolino da parte di immobiliaristi. Noi ci siamo mossi come sappiamo fare, con una operazione di comunicazione e il progetto è cresciuto grazie alla nostra capacità di fare tutto in casa: grafica, account, comunicazione, oltre a una rete di contatti estesa”. E aggiunge, con orgoglio: “siamo artigiani”. Dietro il Brera Design District c’è l’esperienza di anni di design week in altre zone di Milano, da Tortona a Porta Romana, da Via Mecenate a Bovisa. E ancora prima Fuorisalone.it, la piattaforma che mappa tutte le attività che accadono in città in occasione del Salone del Mobile, la cui nascita – su digitale, erano i primi anni 2000, all’epoca svettava come un monolite nel deserto – risale all’epoca dell’università. “Ci ho anche fatto la tesi”, sottolinea l’ex studente del Politecnico classe 1977, e sorridendo racconta come, nelle feste e in altre occasioni sociali, sia passato da sentirsi chiamare “quello di fuorisalone.it” o semplicemente “fuorisalone” a essere “guarda, c’è brera”, come accade oggi. “Milano è un buco e tutti ti conoscono per quello che fai”, mi ripeterà più volte nel corso della nostra chiacchierata.
**Fuorisalone 2018.** Questa è [la nona edizione della Brera Design Week](http://2018.breradesignweek.it/?utm_source=bdd) e il tema della settimana sarà l’empatia, ovvero “la capacità di immedesimarsi e di comprendere i bisogni prima di creare
soluzioni”, un argomento di importanza basilare per ogni designer, ma che costituisce anche un ottimo spunto per affrontare l’attualissimo tema dell’intelligenza artificiale. I robot cambieranno i processi di progettazione, oltre a quelli di produzione, ma come lo faranno? Il **BDD** per questa edizione assegna anche un premio (a Constance Gennari, per **The Socialite Family**) e ha nominato tre ambassador (Cristina Celestino, Elena Salmistraro e Daniele Lago) , “talenti che credono nell’aspetto emozionale del design e nell’empatia che si crea tra gli oggetti, i luoghi e le persone”, tutti presenti nel distretto con un progetto personale.
L’anno scorso durante il Fuorisalone nei confini del **BDD** 180 eventi hanno coinvolto 300 aziende e 250mila persone, con più di 130mila pageviews sul sito, 15mila guide e 30mila mappe distribuite in 6 giorni. Quando tutto è cominciato, nel 2010, gli eventi erano 42; già l’anno successivo sfioravano il centinaio. “Brera è il Design District più importante al mondo, perché non esiste un’altra area sul pianeta con quella densità di showroom legati al design”, ribadisce Paolo Casati. E durante il Fuorisalone non esiste un’altra area della città che abbia un numero così grande di espositori ed eventi.
**Milano, città di distretti (nel bene e nel male)**. La Milano del Fuorisalone non è solo **Brera**, ovviamente. **Zona Tortona** è stata la prima a renderlo “popolare”, il Fuorisalone degli open bar, anche se in definitiva quello dietro Porta Genova è soprattutto un quartiere legato alla moda. Tanti poli e distretti sono nati negli anni, alcuni si sono disgregati, altri hanno cambiato “residenza” (Ventura è diventato **Ventura-Centrale**). Per condividere bisogni, problemi e obbiettivi è nato da qualche anno il tavolo interzone degli operatori del design di Milano. “Un’esperienza molto positiva”, commenta Casati, “perché ha sbloccato i rapporti con Salone, ma anche la possibilità di sedersi al tavolo con il direttore di una rivista di design e mettere in piedi un progetto insieme”. Il tavolo ha fatto crescere i rapporti e le sinergie tra le aree del design di Milano (“con Ventura ci sentiamo tutti i giorni”) evidenziando però l’unicità di Brera. “Nel tempo, mentre gli altri cambiavano identità, nome o quartiere, noi siamo rimasti gli unici fedeli a noi stessi”.
“Quelle con cui non andiamo d’accordo sono le tante realtà che abusano del termine “district” quando mancano le condizioni”. Nel caos felice del Fuorisalone, che ribalta la città con l’impeto di migliaia di eventi privi di una regia unica, esistono anche le note stonate. Perché nella città della moda fa trendy vendersi come distretto di design. Con la diffusione di quella che tra milanesi si definisce cordialmente **fuffa**. Perché non ci si improvvisa qualcosa che non si è, ma non solo. I design district dalla vita breve quanto una farfalla non fanno bene alla città. “Così perdi un’opportunità”, commenta Casati, che osserva come basterebbe un’analisi dell’area per scoprire quali sono le risorse che puoi promuovere tutto l’anno: food, intrattenimento o altro, esattamente come è stato fatto per Brera e il design. Inoltre, si aumenta l’entropia già galoppante del Fuorisalone, cosicché chi arriva da fuori, “l’olandese o il giapponese o il cinese”, e forse anche il milanese stesso, si disorienta, non capisce più i valori, i pesi e le direzioni. Vanificando gli sforzi di chi lavora seriamente tutto l’anno, da anni, per rendere il Fuorisalone l’occasione più importante che ha la città di Milano per mostrarsi al mondo.
**Il digitale, il metodo e la reputazione.** “Eravamo in due, ora siamo in dodici”. Casati e Confalonieri hanno fatto parecchia strada dagli esordi di fuorisalone.it. Senza quella esperienza fondamentale, con ogni probabilità, oggi il **Brera Design District** non esisterebbe neanche. E non soltanto perché su quel sito si condensò la rete di contatti necessaria per l’operazione District. “Il nostro scarto è stato il digitale“, dichiara orgogliosamente Casati. Commentando con un sorriso, “io lo dico sempre, non ci fosse internet oggi non saprei che fare“.
Ovviamente, il digitale da solo non basta, e qui si vede la lezione di chi ha studiato come progettare: sono serviti **il metodo** – “come diceva **Ernesto Rogers**, dal cucchiaio alla città l’approccio è lo stesso”. E la **reputazione**, “perché in una città piccola come Milano, in un contesto ancora più piccolo come quello del design, se fai un errore sei segnato. E noi, per fortuna, non ne abbiamo fatti”. E poi ancora tanta dedizione, tanto lavoro, “questa per noi è una passione vera”, sottolinea Casati, che per quattro anni del suo percorso universitario al Politecnico ha disegnato prodotto, per poi spostarsi alla comunicazione. “Fare le notti a impaginare una guida… lo si fa sempre con piacere”, sorride ancora, e mi spiega come proprio stanotte, a pochi giorni dalla **Design Week,** gli toccherà fare le ore piccole. E mentre sorride sornione, come a schermare con timidezza la passione che lo agita e muove, dai suoi occhi puoi capire che, sotto sotto, non vede l’ora di mettersi al lavoro, per quanto sfiancante possa essere.
“Siamo partiti da una mappa, siamo passati a un giornale, oggi abbiamo una guida di 200 pagine formato A5 con contenuti editoriali e doppia lingua”, ma non ci si può fermare. Perché se lo scarto è stato il digitale, oggi il terreno da conquistare sono i social media. Che cambiano a una velocità impressionante (“pensa a Twitter, ho passato anni a lavorarci e ora non serve più a niente”) e nel mondo del design stanno ancora trovando una loro precisa identità, distanti anni luce come sono dai numeri stratosferici dei “cugini” della moda. “Ma alle aziende piacciono molto, soprattutto piace Instagram”, spiega Casati, dipingendo uno scenario di pochi numeri, quasi nessun influencer, tantissima ricerca della qualità, in cui un profilo con soltanto 3000 follower può assurgere a punto di riferimento. Proprio in occasione della Design Week 2018 di Milano, **Instagram** ha presentato – in collaborazione con **[Dezeen](https://www.dezeen.com/)**, stella polare nell’editoria di settore – **@design**, un profilo/piattaforma dedicato alla cultura del design che vuole cambiare le regole del gioco con un progetto curatissimo, dove convogliare energie e nuovi talenti, si spera lontano dall’economia delle piogge di cuori che regolano regioni più o meno limitrofe del social di Zuckerberg.
**Il presente di Brera, qui a Brera, è già il suo futuro**. Casati ne è piuttosto convinto: quello che poteva essere fatto qui, sul territorio, è stato fatto. E ora le direzioni da prendere puntano altrove. A cominciare dall’internazionnalizzazione del brand **BDD**, “e l’idea” – spiega il **creative director** – “che domani Brera possa diventare un luogo, un negozio, fisico o online, o anche una replica di questo appartamento dove tu vendi l’Italian way, quella che è la nostra visione”. E appunto, si ritorna alla casa in cui ci troviamo, che definisce “la dimensione attraverso cui capitalizziamo il percorso”. Affittando la casa del **Brera Design District** ad aziende per rientrare nei costi, ma anche usandolo come hub e luogo d’incontro per designer, studiosi, appassionati di settore. E il **tavolo** di Vitra progetto da Jean Prouvé a cui siamo seduti, “che come tutto quello che vedi è dato”, è un luogo nel luogo, un punto d’attracco che ha un potere enorme. Perché, sempre grazie al digitale e alla possibilità di connettersi dall’altro capo del mondo in tempo reale, si possono invitare virtualmente nell’appartamento centinaia, migliaia di persone. Continuando a lavorare con passione e serietà sul design e capitalizzando un percorso che sta passando il giro di boa dei dieci anni. “Non ci piace spremere le cose, preferiamo crescere passo dopo passo”, è il mantra di **Paolo Casati**, la sua filosofia di lavoro, la formula del successo delle sue operazioni. “Siamo artigiani”, conclude il creative director. ”È anche il nostro limite”. E con il Salone alle porte e tante cose da chiudere per tempo, è già il momento di tornare a lavorare. Il futuro, da queste parti, si conquista così.
# Beoplay P6, il nuovo speaker Bang & Olufsen raccontato dalla designer Cecile Manz
Realizzato in alluminio anodizzato sabbiato con il tipico disegno a fori e dotato di uno *strap* in pelle, **Beoplay P6** è l’ultimo speaker wireless di Bang & Olufsen. Si avvale della tecnologia **True360** che rende ricco e profondo l’audio delle casse del produttore danese ed è dotato del tasto **OneTouch** che permette una interazione smart con la cassa durante la riproduzione musicale, oltre ad attivare Siri o Assistente Google sul tuo telefono, accettare chiamate e scorrere tra gli svariati preset della app Beoplay; ha un’autonomia di 16 ore se lo vuoi portare in giro, ma starà benissimo in qualsiasi salotto, con il suo design elegantissimo curato dalla designer Cecile Manz, che per Bang & Olufsen ha già messo la firma su tanti speaker portatili, tra cui il compattissimo Beoplay A1 e il meraviglioso Beolit 17. Una particolare attenzione nel **Beoplay P6** è stata data ai bottoni, ispirati al Beomaster 6000 di Bang & Olufsen, il sound system iconico progettato da Jacob Jensen.
“Con questo speaker volevamo sfidare al massimo livello le possibilità di impiego dell’alluminio, vedere quanto lontano potessimo andare”, spiega **Cecile Manz**. “La parte complessa è mantenere contemporaneamente una qualità alta in tutti i dettagli”.
**Sei soddisfatta?**
Sì, ho bisogno di essere soddisfatta con quello che faccio.
**Avevi un certo tipo di persona in mente quando hai progettato questo speaker?**
No, a parte il fatto che io voglia relazionarmi come persona a quello che progetto.
Cosa c’è di speciale nel lavorare con Bang & Olufsen?
Quando sono stata invitata negli stabilimenti ero molto felice. Mi piacciono molto le visite nelle fabbriche in cui entri davvero a contatto con lo spirito dell’azienda, le persone che ci hanno lavorato per tanti anni, vedere i macchinari, comprendere il brand. Ho chiarito fin dall’inizio che avrei avuto bisogno di libertà per dare il mio contributo allo sviluppo del design. Ho fatto tanta ricerca, ho fatto attenzione a cosa mi dicevano gli ingegneri. Penso che sia importante: se ascolti, impari. E può capitarti anche di porre molte domande stupide e imparare veramente delle cose!
**Che differenza c’è tra questi speaker e quelli che hai progettato in passato?**
Penso che tutti gli speaker B&O Play siano in qualche modo connessi. Tutti condividono un’impronta estetica comune e sono fatti con gli stessi materiali; al tempo stesso, però, sono tutti differenti tra loro, perché hanno impieghi differenti: il P2 sta anche in tasca, perché ha un uso differente rispetto all’M5 o al Beolit 17, nei quali non è importante la grandezza, ma la profondità e la ricchezza del suono.
**Negli speaker bluetooth c’è un elemento invisibile importantissimo, con cui relazionarsi durante la progettazione: il suono**.
Il suono è il punto di partenza, deve esserlo per forza. Io non sono un ingegnere del suono ma ho la necessità di rispettare quello che gli ingegneri del suono mi dicono, riguardo a cosa sia fattibile e cosa no. Io cerco sempre di portarmi un po’ oltre, sfidare i limiti di volume, grandezza, forma, ma arrivo sempre a un punto in cui devo preservare la qualità del suono. Perché un bello speaker non è bello, se il suono non è buono.
**E l’implementazione della tecnologia è un ostacolo?**
Non vedo le restrizioni come dei nemici, possono aiutarti anzi molto durante la lavorazione, anche quando stai facendo delle scelte.# Ho dissezionato una rana sul nuovo iPad
#### Ma nessun animale è stato ferito per la realizzazione di questo articolo
È uscito un nuovo iPad. È bello e potente, anche se non come l’iPad Pro. Ha un ottimo schermo, anche se non è quello dell’iPad Pro; e rispetto al Pro 10,5, con cui condivide dimensioni e ingombri, ha le cornici più grosse e non ultrasottili. È l’iPad più economico di sempre, il modello base costa 359 euro. E con il Pro ha sì una cosa in comune: per la prima volta, anche la linea base dell’iPad è compatibile con la Apple Pencil – quindi, anche con quei pennini sviluppati da terze parti, come quella di Logitech.
Allargando così il bacino di utenza di una tecnologia che, lanciata un paio di anni fa, era rimasta a esclusivo appannaggio di una utenza elite che aveva acquistato iPad Pro; un vero peccato, perché le applicazioni che fanno uso del pennino sono tante e non soltanto quelle che permettono di disegnare. E ne vedremo sempre di più. Anche perché negli Stati Uniti, dove il tablet a scuola fa presenza fissa, il nuovo iPad è stato lanciato proprio con in mente loro, gli studenti. In Italia le cose sono un po’ diverse e aspettando che le nuove tecnologie non siano più studiate come materia, ma la materia (fisica e di concetto) su cui studiare le altre, il nuovo iPad e la Pencil verranno comodi a molti. Soprattutto grazie alla qualità delle app a disposizione: quando si sfoglia l’app store dell’iPad diventa siderale la distanza dalla concorrenza che già si avverte sull’iPhone.
Scrivere appunti a mano libera (e firmare pdf). Nella top 5 delle applicazioni produttività la situazione è piuttosto chiara: le app preferite sono quelle per prendere appunti direttamente sull’iPad. Lo puoi fare con i normali stilo in circolazione (quelli con la punta di gomma, per intenderci), ma la precisione di Apple Pencil restituisce risultati che spingeranno molti a lasciare impolverare i loro bloc e quadernoni. Le app di riferimento sono due, con un terzo incomodo che offre soluzioni decisamente interessanti. Partiamo da quest’ultimo, MyScript Nebo, sicuramente la app più “smart” del trio, con varie possibilità di usare la scrittura in maniera avanzata e non semplicemente come se stessi replicando mimeticamente la scrittura di su carta. Puoi cancellare senza lo strumento gomma, ma semplicemente con un tratto di penna, staccare parole accavallate e trasformare quello che hai messo giù in corsivo in scrittura “a macchina” con un semplice clic.
**GoodNotes 4** invece è la app che riesce a replicare meglio l’esperienza della carta, con alcune opzioni prezione come il pannellino di ingrandimento, per una scrittura minuziosa, o l’icona che “spegne” la penna quando vuoi solo sfogliare un quaderno. E ci sono tantissimi tipi di carta tra cui scegliere, anche quella pentagrammata. Sarebbe utile avere a disposizione due colori diversi per la biro direttamente nella barra strumenti e che le impostazioni si sincronizzassero via iCloud tra i vari dispositivi. Se vuoi farti convincere ad acquistarla, prova a dare un’occhiata all’aggiornatissimo profilo Instagram. E poi c’è Notability, sicuramente la più completa, e anche se l’interfaccia è meno raffinata rispetto alla concorrenza il vantaggio di potere integrare note audio è sicuramente grande, del resto la distribuzione delle note in diverse cartelle o l’utilizzo come alternativa alla app Note di Apple per fare elenchi o liste direttamente dalla tastiera, da alternare a elementi scritti a mano. Sia Notability, sia GoodNotes 4, oltre a essere compatibili con iPhone, hanno una app anche per MacOs, che ovviamente sincronizza tutti i contenuti, in modo da potere consultare note e appunti anche dal portatile o dal desktop.
Anche la suite produttiva costituita da **Pages**, **Numbers** e **Keynote** si è aggiornata, con la possibilità di dare spazio alla creatività con i nuovi strumenti per Apple Pencil, e la nuova funzione per le *smart annotations*, pensata sempre per chi vuole intervenire a mano.
**Paper** invece è un’ottima soluzione per tutti quelli che hanno bisogno di una app per realizzare degli sketch grafici. La resa dei diversi strumenti di disegno è veramente incredibile. Per sbloccare tutte le funzioni tuttavia occorre un abbonamento, annuale (9,99 euro) o semestrale (6,49).
**Froggipedia** è la risposta in formato tablet alla scena di ET in cui le rane liberate schizzano fuori dalla classe di Elliot come tanti piccoli alieni che cercano di tornare al loro pianeta. Senza rinunciare allo studio dell’anatomia della rana, che in questo caso è soltanto digitale e in realtà aumentata. Ci sono tre sezioni. Una per conoscere il ciclo di vita della rana, a partire dall’uovo; e una seconda in realtà aumentata che ti permette di studiare l’anatomia dell’anfibio dopo averlo virtualmente posizionato sulla tua scrivania, olà. Con la Apple Pencil qui in versione bisturi la puoi anche sezionare. Per noi è una esperienza surreale, per i nostri figli sarà probabilmente la normalità. Gli anfibi ringraziano.
La realtà aumentata cambia la nostra fruizione dell’arte, perché ogni luogo può diventare un museo grazie alle app. Abbiamo già parlato di 4th Wall, progetto di un’artista contemporanea che ti fa entrare nel suo studio in qualsiasi angolo del mondo tu sia; per restare in un ambito più classico, **Boulevard AR** è l’applicazione che ti mette di fronte le opere della collezione Tudor della National Portrait Gallery di Londra, con un tour in nove vignette guidato dal curatore della collezione.
**Playgrounds**. È la app che ti insegna come si fanno le app. E magari un giorno a farne anche tu, usando Swift, il linguaggio di programmazione per iOS. Con una gamification intelligente e ben fatta, che rende tutto godibile da imparare, passo dopo passo. E adatto a una utenza come i giochi Ravensburger, 9-99 anni, anno di più, anno di meno. Qui non c’è realtà aumentata o Apple Pencil, ma semplicemente una solidissima applicazione per imparare come sono fatte le applicazioni con cui spendiamo così tante ore tutti i giorni.
# Fujifilm X H1: le caratteristiche e la prova di GQ
Dopo avere conquistato il cuore degli amanti della fotografia con le sue fotocamere mirrorless, che uniscono design retrò, ottimi comandi manuali, buoni obbiettivi e una resa di alto livello grazie anche a un sensore sviluppato in casa, Fujifilm l’anno scorso ha lanciato una nuova sfida aggredendo il segmento professionale con un intero sistema medio formato digitale e la fotocamera [GFX 50s](https://www.gqitalia.it/gadget/hi-tech/2016/09/21/gfx-50s-la-prima-mirrorless-digitale-medio-formato-di-fujifilm/). Sempre con l’intenzione di puntare verso l’alto, l’azienda giapponese lancia la nuova ammiraglia della serie X, scalzando dal trono il modello Pro, che dopo avere battezzato la gamma delle mirrorless Fujifilm nel 2012 era stato rivisto e potenziato nel 2016. **La nuova X-H1 è la fotocamera più performante della gamma X**. Viene incontro ai professionisti della foto e del video con un corpo robusto, resistente a polvere, acqua e freddo (fino a -10 gradi), che può essere facilmente impugnato verticalmente con l’apposito grip, e un sistema di stabilizzazione dell’immagine capace di coprire fino a 5 stop, più una simulazione di pellicola, “Eterna”, pensata appositamente per il video. Il sensore **CMOS** di 24 milioni di pixel utilizza il motore di elaborazione delle immagini **X-Processor Pro**, già visto sui modelli **X-Pro2** e **X-T2** di Fujifilm; il mirino elettronico, snodo cruciale per le mirrorless, promette la migliore fluidità possibile; tra gli accessori, anche un oculare grandangolare.
**X-H1 sarà disponibile da marzo 2018 al prezzo indicativo di 1.939,99 euro iva compresa solo corpo e al prezzo indicativo di 2.239,99 euro iva compresa 2.239,99 in kit con il Vertical Power Buster**.
Ma come si comporta sul campo? Questa sera le impressioni della nostra prova sul campo a Lisbona, durante l’evento europeo di presentazione della fotocamera in cui Fujifilm crede tantissimo.
In mano. È la più “grossa” della serie X. Soprattutto con il grip. Ma resta comunque una via di mezzo tra una piccola mirrorless e i modelli ingombranti reflex o medio formato. Con un pancake è facilmente trasportabile. Il grip sicuramente prende spazio in borsa ma bilancia perfettamente la fotocamera, e questo aspetto, aggiunto ai vari boost che conferisce alla X-H1 in fase di scatto, lo rendono un accessorio quasi imprescindibile.
**Video**. È sicuramente l’aspetto che è stato migliorato più a fondo rispetto agli altri modelli X, che era nata come una serie soprattutto dedicata al mondo della fotografia. Certo, le opzioni sono quasi troppe per chi non è un invasato di riprese e il peso si fa sentire, il target è senza dubbio più quello dei professionisti, pronti a mettere in campo una serie di accessori (gimball, cavalletti e così via) piuttosto che l’utente che voglia fare un video “casual” - un iPhone X continuerà ad andare benissimo – anche se l’ottima stabilizzazione dà i suoi risultati. Allo stesso modo può essere la fotocamera “definitiva” da usare su un drone professionale, ma il discorso è sempre quello: se pensi di fare video incredibili out-of-the-box puoi dimenticartelo.
**Ritratto, movimento, performance**. Cosa possiamo chiedere ancora a una macchina fotografica quando passiamo il tempo a scattar con i cellulari e a mostrare le foto agli amici al grido di “guarda, sembra fatta con una reflex”? Considerato soprattutto che le serate proiezione diapositive scattate in medio formato dei nostri genitori sono diventati dei post su Instagram. Una macchina fotografica sicuramente deve essere veloce, avere un vasto parco ottiche e riuscire laddove i cellulari ancora non arrivano - zoomate superspinte, grandangolo, bokeh naturale e non ricreato da qualche intelligenza, foto con scarsa luce, uso di flash esterni e condizioni meteo difficili. Ma forse, probabilmente, quello che chiediamo alla nostra prossima macchina fotografica è che sia migliore della precedente. Perché, professionisti a parte, chi vuole continuare a fotografare con le fotocamere lo fa perché le ama. La nuova X-H1 ha tantissime opzioni ma non porta rivoluzioni particolari nelle meccaniche del fotografare come fece la prima X-Pro - che aveva comandi manuali sulle ghiere al tempo rarissimi sulle digitali, una doppia modalità per il mirino e un ingombro contenuto comparato all’ottima resa fotografica. Questa nuova X-1H è semplicemente lo stato dell’arte per una fotocamera della Serie X. Senza compromessi, quasi fin troppo senza: navigare il menù è un’impresa da fanatico dei manuali delle istruzioni. Ma c’è tutto quello che cerchi o che vuoi, o quasi.
Quindi se hai già le ottiche e vuoi aggiornare il corpo, o hai sempre aspettato per passare a questo sistema, questo è il momento buono (anche perché molti venderanno a un prezzo sensato le loro Pro2 e T2 per fare upgrade). Ma attenzione, la nuova ammiraglia Fujifilm è un bolide e va forte nelle mani giuste. **Complessa, versatile, tutta da imparare, la X-H1 è per chi mastica di fotografia o vuole mettersi seriamente sotto con tempi e diaframmi per imparare**. Se cerchi qualcosa da usare in automatico che faccia magie sul tuo terribile profilo Instagram, o ti faccia sentire un po’ fashion blogger, ti converrà guardare da un’altra parte.
Nella prova di Lisbona, abbiamo usato la nuova lente FUJINON MKX18-55mmT2.9 e l’ottimo, intramontabile obbiettivo fisso normale Fujifilm XF 35mm f/1.4 R.
# Hovr, la nuova tecnologia running delle scarpe Under Armour
La suola intermedia, ovvero la base della scarpa, ha il compito di assorbire e rilasciare energia durante la corsa, ammortizzando al tempo stesso gli urti quando il piede poggia sul terreno. È il terreno di battaglia dei giganti del footwear mondiale nel mondo del running, e ognuno presenta una sua tecnologia proprietaria: adidas ha Boost, Nike lancia React in questi giorni e Under Armour risponde con HOVR, un “piattaforma” disponibile – per ora – in due linee di scarpe running: Sonic e Phantom.
**Cos’è HVOR**. Ammortizzare al meglio la corsa, garantire un perfetto ritorno di energia. Questo il compito dell’intersuola ideale: per realizzarlo, HVOR utilizza una schiuma brevettata insieme a Dow Chemical, il secondo più grande produttore chimico del mondo.
Un elemento chiave del sistema di ammortizzazione HVOR di UA è l’”Energy Web”, una rete mesh che racchiude il nucleo di ammortizzazione, garantendo così notevole reattività e ritorno di energia. Questa perfetta combinazione aumenta il comfort per i runner e ne migliora le prestazioni, riducendo al tempo stesso la fatica . Con il sistema HOVR, infatti, la scarpa assorbe parte dell’impatto che il corpo dell’atleta percepirebbe normalmente, aumentando il comfort e mantenendo le gambe riposate.